MONTE PRIAFORA' DALLA CHIESETTA DI SANT'UBALDO IN CONTRADA LAGO DI VELO D'ASTICO
DISLIVELLO: 1250 m circa
DURATA: 5 ore e mezza, pause comprese
DIFFICOLTA’: EE in discesa, sul sentiero 466A
RIFERIMENTO: Carta CAI – Valdastico e Altipiani Trentini
– Foglio SUD
Il buco del Priaforà salta agli occhi tutte le volte
che scendo il Costo, tornando dall'altopiano di Asiago. Lo
sguardo cade sempre lì, sul buco in fianco alla cima, e segue poi il percorso di creste che porta al
Summano, l’ultimo monte prima della pianura vicentina.
Mi piace l’idea di salire le montagne dal basso, proprio da giù giù, dalla base; ha qualcosa di demodè, di
un’epoca con pantaloni alla zuava e le camicie a quadroni.
Così prendo in mano la cartina, seguo la strada fino a Lago
di Velo d’Astico, e il sentiero 466 che sale fino alla cima.
Non mi immagino orde di gente a salire un monte di 1654
metri.
Soprattutto non mi immagino orde di gente farsi 1250
metri di dislivello per salire un monte di 1654 metri.
PARTENZA
Alla fine dell’autostrada A31 Valdastico seguo per
Piovene Rocchette, poi continuo per Velo d’Astico e svolto a sinistra seguendo
le indicazioni per contrada Lago. Parcheggio alla chiesetta di Sant’Ubaldo,
vicino al monumento ai caduti. Ci sono anche due comode panchine per mettersi
gli scarponi.
IL SENTIERO
Il 23 luglio 2017 mi alzo alle 6, alle 7.30 sono in
cammino.
Seguo per un centinaio di metri la strada asfaltata oltre
la chiesetta, poi prendo finalmente la strada sterrata a sinistra ben segnalata
dalla freccia bianca e rossa. 3 ore e 40 di salita, dice. Vedremo.
Il sentiero fuori dall’abitato non è perfettamente
segnalato e devo guardarmi un po’ in giro per trovare le strisce bianche e
rosse, ma la cosa non mi stupisce, i sentieri poco frequentati spesso sono
anche poco manutenuti. Quello che mi stupisce invece è vedere cerbiatti a poche
centinaia di metri dalle case, la qual cosa dà tutta un’altra sfumatura al
termine “poco frequentato”.
Superata località Brocconeo e passata una pietraia
pianeggiante, il sentiero, ora ben segnato, comincia finalmente a salire: una
salita sostenuta e continua, sempre sotto un fitto bosco fin quasi alla cima.
Sento i camosci che si muovono nelle vicinanze, ogni
tanto ne vedo qualcuno.
Bosco, bosco, ancora bosco. Solo verso metà salita si apre
uno squarcio di panorama prima di essere di nuovo inghiottito nel buio degli
alberi.
A una ventina di minuti dalla vetta finalmente esco all’aria
aperta e tra nuvole basse intravedo la cresta che unisce il Priaforà al monte
Giove.
Arrivo in cima in 2 ore e 30, sono in ottima forma.
Alla croce di ferro trovo prima 3, poi 5, poi 8 persone e
qualche cane.
Guardo il sentiero che conduce al famoso buco che dà il
nome al monte e c’è il mondo.
Novegno, Giove e Priaforà creano un ideale altipiano di
sentieri semplici e pianeggianti, con un bel parcheggio a 1500 metri. La montagna per chi non ama far fatica in montagna.
Proseguo per il pianeggiante sentiero 435, in mezzo a
gruppi di amici in scarpe da ginnastica e genitori con i figli nello zaino fino a una pozza per l’abbeveramento
delle vacche.
Poi mi levo finalmente dai piedi e prendo il sentiero 444 che aggira il monte Giove e si dirige verso il monte Brazome. Tengo la sinistra per congiungermi al 477 e finalmente incrocio il sentiero 466A che scende per il vallone Sant’Antonio.
Il sentiero è ripido, direttissimo, perdo quota in un
attimo.
Arrivo all’attacco del vallone e come per magia il
sentiero non c’è più. Il vallone, che è poi un enorme colatoio, è franato di
brutto mangiandosi le sponde laterali e scendendo ben oltre quello che si
potrebbe intuire dalle mappe.
Sono nervoso, stanco di cadere ogni due passi, il terreno mi
sfugge continuamente da sotto i piedi. Ad accompagnarmi nella discesa migliaia
di farfalle nere, nitide sulla frana bianca, sempre in movimento senza alcun rumore. E’ uno spettacolo silenzioso e bellissimo.
Lo so che dovrei fermarmi, sedermi e godermi l’attimo ma
non è così facile rilassarsi su una frana: ogni passo è un
appoggio instabile, le tracce del sentiero si trovano e si perdono.
Ogni tanto mi distraggono i camosci che spuntano dal
fitto degli alberi.
Oramai sono quasi a valle. Cerco le tre strade forestali
segnate sulla carta per scoprire che le prime due sono state coperte dalla
frana, l’ultima, finalmente, è intatta. La seguo verso sinistra e dopo qualche
decina di metri ritrovo il sentiero 466 e in un attimo sono nella zona pietrosa
dell’andata.
Ritrovato il sentiero in 15 minuti sono alla macchina.
Mi siedo sulle panchine, mi tolgo gli scarponi
impolverati, mi mangio l’ultimo panino.
Non è stato un bel giro, no.
Troppo bosco in salita, troppa gente in vetta, troppo complicata la discesa.
Troppo bosco in salita, troppa gente in vetta, troppo complicata la discesa.
Se parliamo strettamente di giri in montagna non è difficile trovare di
meglio.
IL PIPPONE FILOSOFICO
Se parliamo invece dell’esperienza della natura e delle riflessioni
che ha generato, è un discorso diverso.
Di solito considero la natura come qualcosa di esterno all’uomo, come qualcosa di selvaggio – la famosa wilderness – quando invece sono millenni che l’uomo la
modifica e la costruisce in base alle sue esigenze e alle sue necessità. Quando
penso alla montagna in realtà penso a una natura “sicura” che sono abituato ad
attraversare salendo in macchina per strade asfaltate o battute, parcheggiando nei parcheggi predisposti, uscendo di rado dai sentieri curati e più o meno manutenuti... una natura di
percorsi, rifugi e bivacchi segnalati sulle cartine. E’ la natura modellata dall’uomo.
Come cittadino moderno mi sono bastate un paio d’ore
fuori dai sentieri per riscoprire la difficoltà di muoversi in una natura meno collaborativa, diciamo più reale, e
– pur inciampando e sacramentando – di ammirarne lo spettacolo.
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